Giuseppe Malinconico: chi è il mio Prossimo?
Luigi De Luca 28 Giugno 2023«Fratelli si nasce, prossimi si diventa scegliendo di diventarlo», scrive Luigino Bruni in un recente articolo sulla terza enciclica di papa Francesco Fratelli Tutti. E scendendo da Gerusalemme a Gerico, come il buon samaritano della parabola (Lc 10, 29-37), il giornalista fa notare quel contrasto tra prossimità e vicinanza che tutt’ora si registra nei nostri ambienti comuni.
A differenza del levita e del sacerdote che erano considerati gli addetti alla cura e all’assistenza, il samaritano è il meno vicino alla vittima tra i passanti eppure decide di diventargli prossimo, spinto da quella esigenza di fondo che ognuno di noi sente nel voler costruire un mondo migliore davanti al dolore quotidiano. Pandemie, guerre, continui naufragi. Migranti, spinti dalla disperazione e costretti a lasciare la propria terra, ad estirpare le proprie radici.
Le stesse, di cui si è nutrito Giuseppe Malinconico, insegnate palmese, che più volte si è fatto “ponte” con realtà lontane e vicine contro ogni forma di indifferenza.
A differenza del levita e del sacerdote che erano considerati gli addetti alla cura e all’assistenza, il samaritano è il meno vicino alla vittima tra i passanti eppure decide di diventargli prossimo, spinto da quella esigenza di fondo che ognuno di noi sente nel voler costruire un mondo migliore davanti al dolore quotidiano. Pandemie, guerre, continui naufragi. Migranti, spinti dalla disperazione e costretti a lasciare la propria terra, ad estirpare le proprie radici.
Le stesse, di cui si è nutrito Giuseppe Malinconico, insegnate palmese, che più volte si è fatto “ponte” con realtà lontane e vicine contro ogni forma di indifferenza.
Giuseppe, quand’è che hai iniziato a viaggiare?
Era il 1982. All’età di ventidue anni partiti da solo per l’America, direzione New York, con il desiderio di conoscere e aprirmi alla vita. Lì sperimentai cosa significa rimanere più giorni senza lavoro e senza cibo. Dopodiché, nel 1983, andai in Brasile dove cercai di unire alla spensieratezza del viaggio anche la conoscenza dei popoli primitivi, della loro cultura, delle diverse lingue. In quel tempo mi aveva parecchio affascinato la figura del sindacalista brasiliano Chico Mendes, poi brutalmente assassinato nel 1988.
Dal Brasile ti sei poi spostato in Africa, dov’è cominciato il tuo “impegno missionario”.
In africa mi sono trovato in dei posti dove c’era tanto bisogno di aiuto materiale e anche spirituale, davanti a famiglie e bambini che vivevano di stenti tra fame e malattie. Una miseria che spaventava e faceva perdere anche la più flebile speranza. Lì ho compreso che non sarebbe servita un’arida compassione, ma la sola volontà del cuore.
Quali sono stati i progetti che hai avviato in tutti questi anni?
In Ghana, nel villaggio di Bekwai-Boano, siamo riusciti a costruire tre complessi per famiglie, con le prime sei stanze e un cortile interno, dove mia suocera e mia cognata accolgono persone bisognose. Abbiamo portato la luce, direttamente da una delle chiese che aveva già l’energia elettrica. Tantissimi bambini hanno avuto l’opportunità di andare a scuola, fino a completare gli studi. Come Hagar, laureata pochi anni fa in Accounting e Finanza e adesso anche lei impegnata in attività sociali.
E da qui cosa riuscite a mandare in quei territori?
Ogni anno facciamo partire un container con vestiti, beni di prima necessità, beni alimentari, che seleziono e raccolgo personalmente. Ci fu un periodo in cui inviai diverse macchine da cucire e acquistai sul posto migliaia di piante di cacao, dalla cui vendita riescono ancora adesso a ricavare un piccolo introito, purtroppo subordinato alle indicazioni delle grandi multinazionali.
Bekwai-Boano è l’unico villaggio nel quale hai operato?
Tempo fa, riuscimmo a comprare un appezzamento di terreno a nord della capitale, nel villaggio di Korle Mantan, nel quale costruimmo un pozzo. Era un’area non urbanizzata, senza acqua e senza energia elettrica, tanto che gli abitanti dovevano percorrere, al giorno, circa quattro chilometri per raggiungere la prima fonte d’acqua potabile e in più pagavano alcuni centesimi per poterla prelevare. Adesso invece ne beneficiano tutti gratuitamente.
Cosa, questa esperienza, ti ha maggiormente restituito?
Paradossalmente una grande ricchezza, soprattutto quando si riesce a fare qualcosa sapendo di non poter avere nulla in cambio. Credo fortemente che non è affatto umana una società dove c’è gente a cui supera abbondamene quello che ad altri servirebbe per sopravvivere.
Giuseppe, da dove nasce questo desiderio di prossimità?
Innanzitutto dall’aver conosciuto, nel 1988, mia moglie di origine ghanese, grazie alla quale ho avuto modo di esplorare nuovi orizzonti. E poi mia madre, Giuseppina Nocerino, la quale si è sempre prodigava per dare una mano, in paese, a chi ne aveva bisogno. La sua vita è stata ogni giorno una preghiera pratica. Ricordo ancora le sue parole: «la mano che dona deve stare sempre allo stello livello della mano che riceve. Mai aiutare qualcuno ponendosi in una posizione di superiorità».
Sei un insegnate, come tuo padre Francesco. Cosa cerchi di trasmettere ai tuoi alunni?
Porto con me sempre una decina di foto dei miei viaggi, così da coinvolgere i tanti ragazzi che incontro. E tra di loro quanti “eroi silenziosi”, sempre pronti a dare una mano. Grazie ai tanti amici e familiari, ho imparato che girarsi dall’altra parte non porta a nulla. E Per quanto ho potuto ho agito, con un unico desiderio: che la povertà non diventasse un paesaggio.
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