Il Pappagallo vola al Ghione di Roma per "Una vela bianca"
Luigi De Luca 9 Ottobre 2022Dal 29 Settembre scorso al 15 Ottobre, nella cornice del Teatro Ghione di Roma - a pochi passi dal colonnato di san Pietro - va in scena una nuova edizione di “Cometiamo - rassegna di Teatro amatoriale 2022”, giunta quest'anno alla quinta edizione e ancora una volta organizzata da Giuseppe Vitale (direttore artistico) e Maurizio Zucchetti (direttore responsabile).
Una grande finestra su corti cinematografici, monologhi e opere di prosa di vario genere letterario, come quella presentata venerdì 7 e sabato 8 ottobre dalla Compagnia Teatrale Torpignattori con “Una vela bianca”, diretta dai registi Andrea Mattei e Lorena Munini, con le musiche del maestro Alessandro Mattei.
Una grande finestra su corti cinematografici, monologhi e opere di prosa di vario genere letterario, come quella presentata venerdì 7 e sabato 8 ottobre dalla Compagnia Teatrale Torpignattori con “Una vela bianca”, diretta dai registi Andrea Mattei e Lorena Munini, con le musiche del maestro Alessandro Mattei.
Lo spettacolo
Immaginate di aspettare davanti ad una porta, in attesa di qualcosa di cui si ha desiderio di conoscere. Siete sulla soglia, quella che Chiara Guidi indicherebbe come il «dentro del teatro, la parte più esterna e più vicina a quell’interno temuto e desiderato allo stesso tempo». Immaginate ora di entrarvi e abitare una platea a sipario scoperto. Davanti a voi delle maschere che, a ritmo di suoni, cercano posto in scena consapevoli di essere visti, scrutati.
Quel posto lo cercate anche voi e a fatica perché distolti da una “rottura” – la quarta parete non è più – per la quale non eravate per niente preparati. Vi sedete ma continuate ad osservare, scrutare e poi incominciate a chiedere cercando di capire, di sostare lì dove percepite un leggero disagio oramai subìto, scelto, accolto.
Quel posto lo cercate anche voi e a fatica perché distolti da una “rottura” – la quarta parete non è più – per la quale non eravate per niente preparati. Vi sedete ma continuate ad osservare, scrutare e poi incominciate a chiedere cercando di capire, di sostare lì dove percepite un leggero disagio oramai subìto, scelto, accolto.
Le luci si spengono e inizia il racconto come catapultati in una delicata visione onirica di felliniana memoria. E noi, superstiti dei sogni, ci circondiamo del mare – spero non vi dia fastidio – di cui mai conosciamo realmente la fine.
Impariamo a guardarlo con gli occhi – i nostri come quelli degli attori – facendo proprie le tempeste e le alte maree, gli scogli e le navi passeggere; la nebbia e il sapore del sale; la sabbia e la paura matta di lasciarla cadere dai piedi e iniziare a navigare per davvero come vele bianche respirate dal vento.
Impariamo a guardarlo con gli occhi – i nostri come quelli degli attori – facendo proprie le tempeste e le alte maree, gli scogli e le navi passeggere; la nebbia e il sapore del sale; la sabbia e la paura matta di lasciarla cadere dai piedi e iniziare a navigare per davvero come vele bianche respirate dal vento.
È pur sempre la nostra vita che passa; la locanda in cui ci si ritrova per sostare, dopo aver fatto i conti con i propri naufragi e dopo i quali ci resta soltanto il nome, una sola identità, quella vera, che dice l’instabilità di una condizione comune. A tratti necessaria, perché forse è così che si impara a nuotare per davvero; a rimanere fermi, anziché agitarsi, e godersi la leggerezza di essere cullati dal mare.
Paralisi e fuga – e qui Joyce c’entra poco – nelle solite domande che riguardano l’inizio e la fine di ogni possibile relazione: che cosa devo fare per…? Chi voglio essere veramente? Relazioni con gli atri, integrazioni con sé stessi. E allora cosa aspettate a spogliarvi? Godot? Oppure che qualcuno vi prenda e vi tiri fuori dalle comodità?
Anche perché, forse, quel mare, era semplice acqua di grembo materno in cui c’è sembrato di abitare il deserto, tra la nudità di un “venire alla luce” e il desiderio di “tornare a sé stessi” come a voler ritrovare casa dopo aver tagliato il cordone. Proprio così: tagliare, con tutto ciò che non ci fa essere vita. Questa, d'altronde, è sperata salvezza.
A questo punto, voi siete ancora sulla soglia. Immaginate di dover fare una scelta. «Sulla soglia non si può sostare: o si scappa o si entra. […] Possiamo solo raccontare la fiaba di nuovo, ripercorrendola tutta dalla soglia all’uscita, utilizzando sempre le stesse parole».
La Compagnia
I Torpignattori nascono nel novembre 2013 nel quartiere Torpignattara di Roma in un contesto prettamente parrocchiale. Da un gruppo minimo di ragazzi sono giunti ad una quindicina tra i 20-30 anni, crescendo sempre di più e ritrovandosi insieme come una vera e propria famiglia. Provenienti da contesti e interessi diversi, ognuno mette in gioco le proprie passioni talvolta intraprendendo anche percorsi di studi specifici riguardanti lo spettacolo.
La Compagnia, inoltre, nel corso degli anni, si è cimentata in diversi generi: dalla commedia per famiglie al genere Fantasy, per poi passare dal dramma al genere comico e pungente come quello presentato lo scorso anno con “Sua Irriverenza” al Teatro delle Muse di Roma, in via Forlì.
La Compagnia, inoltre, nel corso degli anni, si è cimentata in diversi generi: dalla commedia per famiglie al genere Fantasy, per poi passare dal dramma al genere comico e pungente come quello presentato lo scorso anno con “Sua Irriverenza” al Teatro delle Muse di Roma, in via Forlì.
La parola ai registi: Andrea Mattei e Lorena Munini
Qual è il genere scelto per questo spettacolo?
Icastico. Di grosso impatto visivo. La nostra intenzione era anche quella di permettere al teatro di parlare di sé – Pirandello c’entra tutto – è uno spettacolo basato principalmente sulla parola attraverso la quale i personaggi si mettono a nudo lasciando pochi elementi, quelli essenziali, su cui riflettere. È il teatro che parla. Il teatro che spoglia.
Com’è lavorate insieme, tu e Lorena intendo?
Ci completiamo, nonostante ci distribuiamo i lavori. Lorena è una persona estremamente creativa e fantasiosa e scenograficamente preparata. Anche dei costumi se ne occupa prettamente lei, disegnandoli e poi creandoli utilizzando anche materiale di riciclo. Io, invece, mi occupo più dell’aspetto musicale – quest’anno coadiuvato dal maestro Alessandro Mattei (laureato al conservatorio dell’Aquila) – con il quale già nelle scorse edizioni abbiamo provato a sperimentare combinazioni musicali di generi opposti. Insieme curiamo molto il dettaglio perché ti svolta lo spettacolo.
Qual è la vostra idea di teatro?
Personalmente, avendo da sempre lavorato con il teatro e avendo seguito – durante gli anni universitari – alcuni corsi (tra cui quello con Emiliano Luccisano), ho scoperto un modo di fare teatro molto basato sul fisico, sulla biodinamica, sulla memoria del corpo. Con il tempo, ho cambiato molto la mia idea di teatro e di come il corpo - appunto - possa veramente parlare da sé. Entrambi, io e Lorena, siamo invece molto esigenti sul ritmo scenico e sulla dinamicità. Ma soprattutto percepiamo quando non c’è verità nell’atto recitativo, e ciò non ci piace. Come diceva il nostro grande Gigi Proietti: «viva il teatro dove tutto è finzione, niente è falso!»
Prossimi obiettivi?
La conclusione della rassegna, il prossimo 15 ottobre con le dovute premiazioni finali; qualche replica a novembre dello stesso spettacolo e subito una ripresa dei lavori per ritornare in scena a giugno. E poi – diciamocela tutta – la verità è che noi vogliamo arrivare al Teatro Sistina.
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