Resistenza: sostantivo femminile

Diletta Iervolino 25 Aprile 2021
Resistenza: sostantivo femminile

Il suo corrispettivo latino è resistentia, derivato dal verbo resistÓ—re, composto dalla particella re- che significa “addietro” (attribuendo un senso di contrapposizione) e il verbo sistÓ—re, “fermare”. Dunque, resistenza sta per “contrastare, non cedere”.

Nella lingua italiana, questo sostantivo femminile esprime svariati concetti, declinato secondo diverse accezioni: da quella fisica a quella psicologica, da quella elettrica a quella chimica, da quella biologica a quella meccanica, da quella termica a quella edile, da quella militare a quella economica, da quella sociologica a quella giuridica. Su tutte prevale il suo significato e valore storico: la lotta di liberazione dalla oppressione nazifascista.

Perché soffermarsi proprio sul genere femminile del vocabolo Resistenza? Per riaprire l’archivio di un passato che in realtà mai passa, per quel glossario esistenziale che, al di là dei generi, nelle sue espressioni è tutto declinato al femminile.

La Storia a noi giunta porta con sé tante altre storie, silenziose e taciute. Focalizzarsi sulla Resistenza come sostantivo femminile vuol dire ridar voce alle sue molteplici narrazioni, di cui sono state protagoniste proprio le donne.

In questa essenziale contingenza storica, la presenza femminile non è stata un mero contributo alla - maggiormente celebrata - Resistenza maschile, ma una vera e propria adesione alla causa, spesso a costo della vita.

Dunque, una partecipazione attiva femminile al movimento di liberazione, eppure accantonata dalla storiografia ufficiale e per questo definita “Resistenza taciuta”: un vuoto storico e linguistico che ha inevitabilmente portato ad una rimozione dalla memoria.

Non opportunamente riconosciute e ricordate neanche le svariate forme e attività con cui la mobilitazione femminile si è sviluppata: come maternage di massa, come impegno civile non armato, come lotta partigiana armata, e infine come rivoluzione sociale.

È definito maternage di massa quella estensione del ruolo e del senso materno alla collettività, non più rivolto esclusivamente ai propri uomini in guerra, bensì finalizzato al soccorso di chiunque avesse bisogno: militari disertori allo sbando, partigiani, ebrei vengono aiutati dalle donne con cibo, vestiti, riparo e anche nella fuga.

Il concetto di maternità fuoriesce così dal focolaio della casa e della famiglia, in sordina ma spontaneamente, per dedicarsi pienamente al sostegno della lotta antifascista. È il primo atto di Resistenza femminile, che segue l’annuncio dell’Armistizio dell’8 settembre 1943.

Per impegno civile non armato, da parte delle donne, si intende innanzitutto l’incombenza di dover proteggere la casa, metafora dei valori familiari e sociali, fondamenta della comunità e del viver civile.

Per la prima volta nella Storia le donne sono subentrate - seppur temporaneamente - al posto degli uomini anche nella gestione economica familiare, sostituendoli nel lavoro lasciato per la chiamata in guerra.

Un supporto - necessario alla lotta armata - esercitato ulteriormente con la costituzione dei cosiddetti Gruppi di Difesa delle Donne, caratterizzati da un grande, improvviso e spontaneo coinvolgimento popolare. Si parla di 70 mila iscritte.

Tali gruppi hanno organizzato gli scioperi per la pace, la distribuzione di giornali e volantini informativi, corsi di preparazione politica e per l’assistenza sanitaria, il boicottaggio della produzione bellica e il servizio delle cosiddette staffette.

Immagine fondamentale della Resistenza femminile, la staffetta ha avuto il pericoloso ruolo di trasportare messaggi, informazioni, armi e munizioni alle brigate partigiane nascoste sulle montagne, fungendo da collegamento con le città assediate. Tutto ciò non è stato solo un impegno assistenziale, ma un vero e proprio dispositivo di elaborazione politica.

La lotta partigiana armata intrapresa dalle donne è un altro episodio inedito: hanno imbracciato i fucili e affiancato gli uomini nella lotta alla liberazione o addirittura preso il comando dell’azione partigiana.

Hanno “invaso” anche questo campo di pertinenza esclusivamente maschile, ma durante la lotta sembrava non esser un problema. Invece a guerra finita, durante la sfilata delle brigate partigiane, le donne, che al fianco degli uomini hanno svolto un ruolo fondamentale nella Liberazione, vengono nuovamente marginalizzate.

Molte non hanno partecipato per propria scelta, o perché vietato proprio dalla componente maschile con cui hanno combattuto, in quanto ritenuto un comportamento immorale. Si tratta della discontinuità più evidente del racconto storico: nelle cifre riportate e nei meriti riconosciuti.

I dati ufficiali parlano di 35 mila partigiane, 4 mila e 653 arrestate o torturate, 2 mila e 750 deportate in Germania, 2 mila e 812 fucilate o impiccate, 1070 cadute in combattimento, 19 medaglie d’Oro.

Nonostante il silenzio che per tanto tempo ha avvolto la Resistenza femminile, è inevitabile definirla una vera e propria rivoluzione sociale, in quanto alimentata da una crescente coscienza antifascista, consapevolezza e scelta politica nell’animo femminile, ossia quei presupposti per la successiva rivendicazione dei propri diritti, per il raggiungimento della parità di genere e dell’uguaglianza sociale, per l’acquisizione della propria autonomia ed emancipazione, fuoriuscendo dall’oblio in cui da sempre erano state relegate.

Un’ulteriore riflessione: la Resistenza femminile come Primavera. In quell’aprile del ’45 non si è verificato un semplice equinozio stagionale, ma un rifiorire della pace e della dignità del popolo in generale – ponendo le basi per la nascita della Repubblica Democratica e della Costituzione – e delle donne in particolare – fungendo da ponte verso l’affermazione della giustizia sociale.

Tuttavia, questi aspetti a lungo taciuti della Resistenza, descritti (pur sommariamente) per stimolare una rivalutazione storica, fanno riferimento a testi e documentari riguardanti in larga misura la situazione dell’Italia settentrionale, contrapponendovi così il “perenne carattere immobile” di quella meridionale.

Emerge a questo punto un altro scarto: la Resistenza dimenticata del Sud, non riconducibile soltanto alle famose Quattro Giornate di Napoli, bensì parte di una più ampia – anche se frammentata – guerra popolare.

Ma questa è (ancora) un’altra storia.

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