Un artista, un'opera: MARIANO CARUSO

P. Gerardo Santella 17 Gennaio 2024
Un artista, un'opera: MARIANO CARUSO

LA BIOGRAFIA

Mario Caruso ha scoperto al primo appello della prima elementare (siamo nel lontano anno 1949) di chiamarsi Mariano. Ha iniziato a fotografare con una Brownie Kodak, ha sempre fatto diapositive e dopo una iniziale riluttanza si è convertito al digitale. Tutte le foto che scatta vengono "controllate" sempre e soltanto alla fine di un viaggio, mai subito dopo lo scatto. Quest'amore nasce negli anni '60 dalle frequenti visite alla sezione americana della Biblioteca Nazionale all'USIS, sfogliando le varie riviste americane di fotografia e di architettura e studiando gli scatti dei maestri della Magnum.

Dall'inizio ha sempre usato come supporto la pellicola invertibile 35 mm (diapositive) per evitare interventi esterni in fase di sviluppo, di esposizione o taglio dell'inquadratura. Mai usato il flash, pochi ritratti, solo street photography, foto documentaristiche di viaggi (paesaggi, architetture, natura, molti mercati, tramonti) mai foto precostruite o studiate in precedenza. È stato sempre molto riservato e gelosissimo delle sue foto ma in seguito è stato precettato e costretto da un’amica australiana a condividere le sue esperienze raccogliendo le foto in video con l'aiuto di un commento sonoro. Ha collaborato con ASTERISCHI, Scritti d’Arte nella rubrica L’arte spiegata ai miei amici, con la pubblicazione di tre raccolte: Ronchamp https://youtu.be/H6uQCuECr7E,Givernyhttps://youtu.be/F9QJ5Uh09XY, Barcellona https://youtu.be/F9QJ5Uh09XY.

Nel periodo Covid, dopo una operazione di cataratta, scopre un modo diverso di “vedere” ed osserva più da vicino, in maniera ossessiva muri, pareti, superfici individuando immagini, segni, colori, forme che già conosceva o che aveva intravisto. Avvicinandosi ad un tabellone pubblicitario dismesso vede Mimmo Rotella, la muffa sui muri o la ruggine sulle superfici gli ricorda Alberto Burri, le pennellate incerte dei graffitari gli richiamano Emilio Vedova. Grazie a questo sofisma o artifizio o algoritmo si incontra in maniera forse tormentosa con Pollock, Rothko, Hartung, Debuffet, Scialoia, Consagra, Santomaso.

Concludendo non fotografa come o alla maniera di ..., si serve dell’occhio e del mezzo meccanico della macchina fotografica provando a documentare una emozione.  Fotografia, architettura, musica jazz, viaggi e il Napoli sono la sua passione. Segni particolari: quando fotografa chiude l’occhio destro.

 

L'OPERA: I COLORI DELL’INFERNO

Le foto artistiche di Mariano Caruso richiedono da parte dell’osservatore uno sguardo intelligente, nel senso di una lettura che vada al di sotto dello strato epidermico visibile con cui si presentano per addentrarsi nel groviglio dell’interiorità, nel magma da cui riportare alla superficie e dare forma compiuta, attraverso l’immaginazione sollecitata dalla personale sensibilità e cultura, a reticoli informi apparentemente privi di senso. E in questo caso il fruitore rivendica il diritto, che gli riconosce l’artista, di una interpretazione dell’opera, dettata da un suo specifico interesse culturale, quale è lo studio dell’iconografia della Commedia di Dante.

Al primo impatto l’occhio vede pennellate, campiture, macchie di colore rosso, nero e azzurro variamente articolate, sovrapposte, interferenti, che si avvicinano allontanano incontrano scontrano convergono divergono si ergono slittano si attraggono respingono si ricompongono e scompongono. È l’occhio, mobile, dinamico, che si immerge nella matassa di colori e scruta in profondità.

Mi viene subito da dire: sembra una rappresentazione dell’Inferno di Dante. E  i colori che riempiono lo spazio rinviano con una serie di richiami, verbali e visuali, al luogo della dannazione eterna, in cui il poeta entra con la sua guida Virgilio; e il nero e il rosso sono i colori dell’inferno nelle loro rispettive polarità negative: da una parte il nero che arde e distrugge, chiazze sporche e informi che rimangono dopo un incendio, l’estinzione della luce, la notte che tende a durare nel tempo, il fatale passaggio alla morte, un nulla privo di ogni possibilità; dall’altra il rosso, quell’energia con il suo potere distruttivo, che esplode in una terra  sconvolta dal fuoco e saturata di sangue, in cui dilagano incendi, esplosioni, corpi lacerati; e l’azzurro, che reca nella sua freddezza il senso del nulla, che svuota, cancella, in cui il richiamo a un altrove è una mera illusione. Colori dell’assenza, simbolo di una condizione immutabile, senza speranza di fuoriuscita o di redenzione.

Ed è sempre lo sguardo che, associandosi alla capacità fantastica, segue il flusso dei colori, le loro linee, dimensioni, campiture, gradazioni, dando loro forma. Così, dopo esserci inoltrati e aver attraversato la selva oscura, ci aggiriamo nell’ aere bruno, ci viene incontro Caronte, il nocchiero della livida palude, che aveva intorno agli occhi di fiamme rote, osserviamo le anime che se ne vanno su per l’onda bruna, tremiamo di paura assieme a Dante per il terremoto, cui si accompagna il balenio di una luce vermiglia, in un luogo d’ogni luce muto. E da qui nel nostro viaggio, scendendo giù per la voragine infernale, incontriamo Cerbero con gli occhi vermigli e la barba atra, vediamo l’acqua del fiume Stige, buia assai più che persa, gli iracondi immersi ne la belletta negra. Ed ecco, nella città di Dite, l’alta torre a la cima rovente, su cui si scorgono tre furie infernali di sangue tinte, e al suo interno tra le tombe degli eretici fiamme sparte; e, andando oltre, scrutando la valle, scorgiamo la riviera del sangue, il fiume Flegetonte, dove sono immersi tiranni, omicidi e ladroni. E ancora ci addentriamo nella selva dei suicidi, di colore fosco, dove un rametto staccato diventa sangue bruno, Attraversiamo il deserto di sabbia, dove   piovevan di foco dilatate falde. E, procedendo verso il fondo nell’oscurità interrotta da fuochi vediamo ancora l’ottava bolgia risplendere di tante fiamme, i consiglieri fraudolenti tra i quali due dentro a un foco (Ulisse e Diomede).

E infine ritroviamo ancora i colori rosso e nero, come simbolo di odio e di impotenza, in due delle tre facce di Lucifero: l’una dinanzi, e quella era vermigliala sinistra a veder era tali, quali / vegnon di là onde ‘l Nilo s’avvalla, cioè del colore di quelle genti che provengono dai paesi dai quali il Nilo scende a valle: ossia nera come gli Etiopi. E l’ultimo percorso dei due poeti è ancora attraverso un cammino ascoso e sinuoso, un budello invisibile scavato da un piccolo ruscello prima di uscire a riveder le stelle.

Ma non solo il paesaggio geografico dell’inferno può ricostruire l’osservatore, ma può egli stesso animare lo spazio dando forma all’informale in un montaggio dell’immaginazione, che faccia materializzare sula scena boschi, paludi, fiumi, precipizi, terre aspre, desolate, ma anche Dante, Virgilio, Minosse, Caronte, Cerbero, il Minotauro, Gerione, mostri, diavoli, ibridazioni mutanti e anime dannate che si aggirano sempre in quell’aura sanza tempo tinta. Il lettore dell’Inferno allora, seguendo le varie articolate direzioni delle linee di colori, annodandole in una tessitura organica potrebbe giocare a costruire nello spazio personaggi e situazioni montando smontando rimontando i vari lacerti di colore in fantasmi sempre diversi.

L’ARTE come gioco raffinato e di-vertente, scambio intelligente e dia-lettico tra l’intenzione dell’artista, dell’opera e del fruitore.

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