Un artista, un'opera: SILVIO GRAGNANIELLO (GRALLO)
P. Gerardo Santella 10 Aprile 2024BIOGRAFIA
Silvio Gragnaniello – in arte Grallo – è nato nel 1939 a Palma Campania, in provincia di Napoli. Laureato in Lettere Moderne, ha insegnato materie letterarie nella scuola media inferiore. Autore di testi di narrativa e di poesia, si è dedicato da dilettante anche alla pittura e alla scultura, realizzando numerose opere, esposte in varie mostre in Campania e nel Lazio, dove si è trasferito e vive a Roccasecca, presso Frosinone.
L’estrazione contadina ha influenzato la sua personalità, lasciandovi radici costantemente rintracciabili nelle sue espressioni artistiche.
L’osservazione e la memoria della natura, stratificate con le loro incontaminate radici, offrono germogli di creatività che, trasferiti sulla tela o su materiali plasmabili, si materializzano in corpose immagini espressionistiche, oniriche, talora idilliache e rappresentazioni di fantasmi interiori e ancestrali che trasmettono non solo sentimenti di nostalgia per un Eden idealizzato, ma inducono anche a sperimentazioni materiche, cromatiche e verbali.
L’OPERA: Busto di donna decapitata
Osserviamo questa scultura in legno.
L’artista fa una operazione propria della rivoluzione artistica del Novecento: prende un oggetto, che in natura una sua funzione e vive in uno spazio determinato e lo decontestualizza, trasferendolo e mostrandolo in un hic et nunc straniante rispetto alla situazione in cui normalmente ci aspettiamo di ritrovarlo.
In questo modo invita l’osservatore a farsi una domanda: perché esporre in una mostra un pezzo di tronco d’albero?
Il fatto è che l’arte vuole produrre un effetto di spaesamento tramite uno sguardo libero da pregiudizi e banalità, cui venga restituita la verginità semantica, quando sia posto davanti a un oggetto, un legno, che non si trova infisso nel terreno in un bosco o un giardino o accatastato per essere bruciato in un camino o un forno o modellato in una falegnameria per essere utilizzato come materiale per un arredo domestico, ma in un luogo in cui non ha una funzione utilitaristica ma estetica, deve cioè semplicemente essere guardato.
E allora scattano richiami e corrispondenze, si intrecciano fili analogici, si cerca un surplus di significato, un passaggio dal livello denotativo a quello connotativo; in questo caso un’analogia donna – albero (dal latino arbor, sostantivo di genere femminile), evidente nella forma acefala di un busto di una donna con due protuberanze-mammelle, che si assottiglia e termina nella linea della “vita”, che separa la parte superiore da quella inferiore del corpo. Una parte, dunque, staccata dal tutto con un taglio netto, violento, che è una ferita mortale inferta non solo alla natura, ma anche alla vita umana.
L’osservatore potrà interpretare l’opera come un grido-denuncia contro la violenza sulla donna, la sua condizione di essere stata trattata come oggetto per secoli, la sottomissione al potere maschile, ma anche, considerando il materiale in cui essa è modellata, una rappresentazione delle continue ferite che l’uomo ha causato alla natura con il suo insensato comportamento nei suoi confronti. Che sia la natura o che sia la donna (ma l’una non esclude l’altra), c’è nell’oggetto un segno di resistenza, di vita che non solo non si lascia sopraffare, ma alimenta pure nella dolorosa ferita nuova vita: quei due seni gonfi, che continueranno a distillare linfa nutritiva per la crescita dei nuovi nati dal corpo umano o vegetale in simbiosi tra di loro.