Un “tempo sabbatico” carico di speranza: la compagnia de "I Ribaltati" porta in scena Bravi ragazzi

Luigi De Luca 31 Marzo 2024
Un “tempo sabbatico” carico di speranza: la compagnia de "I Ribaltati" porta in scena Bravi ragazzi
Tra gli anni Sessanta e Novanta Palma Campania ha vissuto un periodo florido dal punto di vista teatrale, ospitando contemporaneamente più compagnie che in alcuni periodi canonici dell’anno come la Pasqua e il Natale, si esibivano con diversi spettacoli, molti dei quali in lingua napoletana. Oggi, solo alcune di loro hanno custodito questa tradizione continuando a dare un notevole contributo culturale all’intera comunità.



In primis, è bene ricordare l’elefantiaca impresa pedagogica del Laboratorio Teatrale Gulliver, diretto dalla maestra e attrice Gabriella Maiello, promotrice tutt’ora di un lavoro propedeutico per tutti coloro che desiderano approcciarsi al panorama teatrale. Allo steso modo lo è l’efficace impegno di Nicola Le Donne, attore e regista nonché nuovo direttore artistico anche del Teatro Comunale di Palma Campania che da qualche anno sta affinando un vero e proprio processo culturale e teatrale, contenitore di iniziative lungimiranti e professionali. E ancora: il costante lavoro della Compagnia teatrale “L’HAREM di Fletcher”, diretta da Giuseppe Alfano, alla quale fa seguito il ritorno in scena della storica Compagnia de “I ribaltati”.



Quest’ultima ha optato per un lavoro inedito, “Bravi Ragazzi”, riscuotendo già un successo significativo. Dalle note di regia si legge che un gruppo di amici, legati da un profondo sentimento di amicizia, si ritrovano insieme ogni week end soprattutto per risparmiare viste le generali difficoltà economiche generate col cambio dalla lira all’euro. E la tavola, bandita di ideali maturati nel tempo e vita quotidiana, diventa luogo di franchezza, intorno alla quale discutere, spettegolare e recitare un copione già consolidato.



Nodi mai sciolti vengono al pettine, a casa di Sergio, durante l’ennesimo sabato. All’interno della neo-Compagnia, volti già noti al contesto cittadino, come l’attrice Gabriella Maiello, il professore Michele Buonagura e Angelo Ferrara, autore, attore e regista del testo in questione. Il resto degli attori: Gina Murano, Raffaele Addeo, Francantonio Santella, Rossella Nunziata, Marianna Nunziata, Peppe Festa, Teresa Romano, Irene Crescenzo, hanno dato prova di un desiderio artistico ben custodito e di una bravura tecnica che speriamo di poter rivedere nei prossimi lavori. Indispensabili invece i collaboratori che hanno permesso il buon funzionamento della parte tecnica: Angela D’Avino, come assistente di sala, Felicetta Simonetti nel compito di suggeritrice e Nando De Sarno nel ruolo di tecnico audio-luci. 
 
Angelo, qual è stata l’intenzione che ha sostenuto l’intera drammaturgia?
Chi scrive vuole sempre farsi portatore di un messaggio, lanciare un “pietra” nella società, in questo caso locale. Penso che il tema portante sia stato e rimanga quello dell’incomunicabilità: tutti parlano ma nessuno ascolta davvero perché distratti o ripiegati ad affermare il proprio pensiero. Una delle scene, infatti, in cui viene fuori questo meccanismo è quella in cui i personaggi si perdono tra dei veri e propri “monologhi collettivi”.  

Un riflesso del mondo che oggi viviamo. Quale altro dispositivo hai usato per questo?
Il telefono di salvatore che squilla in continuazione. È segno dell’ormai “società consumata” (n.d.r.) che va sempre di fretta e non ci lascia vivere a pieno le piccole cose e i singoli momenti quotidiani, come anche una semplice e amichevole cena in compagnia degli amici. Quello che voglio comunicare è proprio questo essere diventati sempre più “arbitri” degli altri più che di noi stessi. Siamo carichi di ipocrisia, magma che sottende le nostre azioni e tutte le diverse dinamiche relazionali. Così l’incomunicabilità diventa subito “incapacità di ascolto” e di empatia.

In altre parole come lo spiegheresti?
Si vive spesso la frenesia di voler anticipare gli altri nel pensiero e nella realtà, sicuri di sapere esattamente cosa gli altri vogliono o stanno per dire, fare o chiedere in termini di necessità, bisogni e desideri. La presunzione sta proprio nel fatto di esserne sicuri nonostante l’altro non lo abbiamo mai sinceramente ascoltato.

E cosa pensi sarebbe più facile fare?
Lasciare che sia l’altro a parlare, soprattutto in ciò che gli riguarda più da vicino.

E forse è in questo che prende forma quell’amicizia che alla fine lega insieme il gruppo di amici?
Proprio così. Alla fine è l’amicizia a cicatrizzare quella serie di conflitti che, per diverse ragioni, si sono perpetuati nel tempo. Quel sabato sera – appunto – diventa un affresco veritiero, una riscrittura di una serata tipo con gli amici, dove ognuno mette in gioco la propria intima quotidianità.



Quotidianità che viene invasa da “ciò che viene da fuori” e che nello spettacolo assume una maschera: Pasqualina. Cosa rappresenta per te questo dispositivo scenico?   
Il personaggio di Pasqualina è per me quel senso di solidarietà che abbiamo perduto. Con un gioco che si svolge dietro le quinte, Pasqualina fa continue richieste di cibo e oggetti ai proprietari di casa, senza mai farsi vedere. Fondamentalmente, le sue sono richieste di aiuto. Questo crea anche una certa tensione all’interno del teso, sia temporale sia spaziale rompendo spesso quella staticità che si crea nel salotto di casa, dove ogni personaggio è come se ritrovasse una personale comfort zone. Similmente, anche la pizza che non arriva mai suggerisce un’attesa, che crea ulteriore tensione e tecnicamente rimanda allo squillo del telefono e a Pasqualina. Sono tutti dispositivi che traducono l’invasività di un mondo iper-globalizzato.

Angelo, qual è invece il cataclisma che mette in moto i tuoi personaggi?
La crisi economica. Lo spettacolo si apre con questo scenario, che ancora una volta racconta di ciò che è esterno al salotto di casa. C’è in realtà anche un secondo cataclisma che invece ribalta l’interno e che riguarda la figlia dei padroni di casa, Giusy. Tutti gli amici hanno di lei un’immagine quasi serafica e per lei continue parole di elogio per educazione, formazione e scelte di vita. Ma verso la fine qualcosa cambia: la ragazza viene arrestata con un’accusa piuttosto grave. Da qui lo sconforto di tutti e il crollo di tutte le aspettative, che durante lo spettacolo si erano alimentati sottoforma di climax.



Restando sul cataclisma della crisi economica: cosa vuoi che il pubblico recepisca?
Voglio che si prenda atto che il sistema ci ha fregato. Che sia stato negativo o meno non spetta a me dirlo, è però necessario parlarne mettendone in evidenza tutta la portata storica e politica.  Il sistema ci ha ingabbiato e ha depotenziato le nostre iniziative, ci ha edulcorato. Rispetto a questo discorso, anche Pasqualina risulta essere quella luce esterna che potrebbe cambiare le cose. Nella scena finale, infatti, entra e porta con sé un piatto di spaghetti con le acciughe richieste precedentemente senza alcuna motivazione. Alla fine si spiega tutto: lei e la madre hanno cucinato per gli ospiti dei propri vicini perché desiderosi di ricambiare l’attenzione (spesso lamentosa) che i padroni di casa gli rivolgono ogni giorno.

Un finale aperto?
Sì, un finale volutamente aperto. Pasqualina quando entra non trova nessuno perché sono tutti in questura per capire cosa è successo alla ragazza. E non si saprà più nulla. Non c’è un lieto fine e non c’è neppure un antefatto che lo annunci. Ce ne sono invece diversi dietro ogni singolo personaggio.  

Una struttura drammaturgica abbastanza complessa. Quali sono state le maggiori difficoltà?
La presenza stabile in scena di tutti i personaggi. La cosa più importante, molte volte, è essere capaci di recitare quando non si è in battuta.  



Da un punto di vista critico, il giornalista Pasquale Gerardo Santella ha definito lo spettacolo una “commedia borghese” ma anche un “contenitore metateatrale”.
  Ancora più interessante il suo considerarlo un gioco di specchi dove gli attori sula scena si sono rispecchiati negli spettatori che li guardavano, che, a loro volta, tramite il naturale processo di identificazione simpatetica, si sono rispecchiati nei personaggi sulla scena.
Condivido pienamente. Come dicevo, la mia è stata una riscrittura di un vissuto comune posto tra la realtà e la finzione. È stato sorprendente, in una replica, riscontrare addirittura un’improvvisa rottura della quarta parete che ci ha colti di sorpresa ma che poi abbiamo saputo gestire. In un’altra occasione, invece, una spettatrice ci ha detto che ad un certo punto si era ritrovata “fisicamente compromessa” nel nostro salotto.
 
Insomma: questo sabato sera è stato un processo più che generativo, che potrebbe benissimo evolversi in un meccanismo attraverso il quale è il pubblico, di volta in volta, a suggerire il contenuto da mettere “in tavola” e intorno al quale muovere possibili considerazioni. Addirittura potrebbe, quello spazio condiviso, diventare amplificatore di tutto ciò che lo spettatore non avrebbe mai il coraggio di dire o di contestare, creando così uno specifico “tempo sabbatico” urgente, perché tempo di restituzione e riappacificazione, in cui esercitare le virtù della pazienza e della speranza. Quest’ultime, separate, porterebbero i personaggi, l’una nel quietismo sordo dell’indifferenza, l’altra nell’esaltazione cieca dell’idolatria consumistica.

Ma il “tempo sabbatico” non risulterebbe però l’ultimo giorno della settimana bensì il penultimo durante il quale i personaggi-pubblico possono sentirsi liberi fino alla fine di dire tutto e il contrario di tutto. In quel salotto, luogo dell’autentico, non ci si arriva dunque stanchi ma esausti, dove per “esausto” – citando Deleuze e Beckett – si intende l’esaustivo, l’estinto, il dissolto. Lo s-finito, che non è l’ultimo, proprio perché rimane ancora qualcosa da fare. Ma che cosa esattamente?

Cercare di riportare a casa Giusy, la “figlia-modello”? Accogliere la solidarietà di Pasqualina? Definire una volta per tutte le incomprensioni passate? O semplicemente riposarsi in attesa di ritornare a lottare contro “ciò che li attende fuori”? Finale aperto, appunto. Ribaltato, totalmente. Concepito come il rovescio di un tempo passato e come lo sguardo concreto sulla crisi contemporanea, questo “penultimo sabato” diventa forse il tempo in cui è ancora possibile agire e riprendere l’iniziativa nella sofferenza delle singole storie e nell’ambiguità della storia comune.
 
 
 
 
 
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